Processo all’italiana

Il processo italiano non solo è complicato, ma anche schizofrenico. Il rimedio principale non sta tanto nella modifica di questa o quella norma, quanto nel tornare, noi, a essere un popolo serio. Processo all’italiana di Piercamillo Davigo e Leo Sisti spiega come funziona la giustizia in Italia e cosa vogliono dire parole chiave come patteggiamento, rito abbreviato, udienza preliminare, depenalizzazione, prescrizione. Ma, soprattutto, propone una cura a costo zero per uscire dai gironi infernali dei tribunali italiani. Bastano poche misure, anche banali, per ovviare a rinvii continui ed esasperanti; per eliminare montagne di carte; per rivedere il patteggiamento e il rito abbreviato, i due riti alternativi che non hanno dato i risultati attesi; per consentire gli appelli solo dopo una loro selezione; per rendere effettive le depenalizzazioni, mai adeguatamente realizzate; per mettere la parola fine all’interminabile polemica sulle intercettazioni. […] La legalità, o, più in generale, il diritto o la giustizia, non è un accessorio ma l’essenza stessa di uno Stato, e quindi del vivere insieme. Anni fa l’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha detto in un telegiornale: «Mi accusano di non avere il senso dello Stato, ma io ho il senso dei cittadini». Però lo Stato è l’organizzazione di un popolo su un territorio. Il popolo è l’insieme dei cittadini. Questi non si contrappongono allo Stato, anzi ne costituiscono un elemento fondamentale: organizzati sul territorio, sono lo Stato. Senza una giustizia efficiente, uno Stato alza bandiera bianca. Rinuncia. Diventa asfittico. Lascia spazio alle considerazioni, riportate sopra, dell’ex governatore della Banca d’Italia Mario Draghi. Una citazione storica aiuterà a capire. È l’aneddoto del pirata e di Alessandro Magno, raccontato da Cicerone e ripreso da sant’Agostino. La flotta macedone, dopo aver catturato un pirata, lo conduce al cospetto del re perché lo giudichi. All’epoca non esisteva la divisione dei poteri, quindi Alessandro Magno fungeva da legislatore, amministratore e giudice. Inutile, va da sé, rivendicare attenuanti generiche o altri benefici penitenziari: allora c’era quella che oggi viene chiamata “la certezza della pena”… Alessandro Magno chiede al pirata: «Con che diritto infesti i mari?». E costui, sapendo di non avere molte speranze di sopravvivere, risponde sfrontatamente: «Con lo stesso tuo diritto, solo che io lo faccio con una nave e sono chiamato pirata, tu lo fai con una flotta e sei chiamato re». Nella Città di Dio sant’Agostino commenta così l’episodio: «Bandita la giustizia, che cosa sono i grandi imperi se non bande di briganti che hanno avuto successo? E che cosa sono le bande di briganti, se non imperi in embrione?». Ecco il punto fondamentale. Che cosa distingue uno Stato dai clan criminali? Non è il numero di navi, soldati o poliziotti: è la giustizia. Veniamo ai nostri giorni. La differenza fra la Repubblica italiana e, ad esempio, Cosa Nostra, non sta nelle schiere di uomini in armi, ma nel fatto che la Repubblica riposa sulla giustizia. Infatti l’articolo 2 della Costituzione afferma che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo. Li riconosce, non li istituisce, vuol dire che sono antecedenti alla Repubblica stessa e alla Costituzione, sono alla base di tutte le scelte, comprese le leggi, amministrazione della giustizia inclusa. Sono quindi un limite di sovranità. Il fatto che i diritti umani, oltre che riconosciuti siano garantiti, implica che siano protetti dalla legge, alla quale deve sottostare anche chi detiene il potere. Sembra ovvio, ma non è così. Fino a due secoli fa il sovrano non era soggetto alla legge. La legge era espressione della sua volontà: lui faceva quello che gli pareva, non essendo tenuto a osservarla. Per questo lo si definiva, in latino, princeps legibus solutus, principe sciolto dalle leggi. Con l’Illuminismo cambia tutto. Anche il sovrano è uguale agli altri. Avrebbe dovuto, perlomeno. Un esempio classico sull’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, è la storia del giudice di Berlino, spesso citato (a volte a sproposito, com’è capitato all’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi). Dunque, un mugnaio di Potsdam possedeva un mulino proprio vicino al luogo dove Federico il Grande di Prussia, il despota illuminato che componeva musiche per flauto ed era amico di Voltaire, aveva fatto costruire il suo castello, battezzato Sans Souci (senza pensieri). Il sovrano detestava quel mulino, gli dava fastidio, voleva sbarazzarsene. Ordinò ai suoi funzionari di acquistarlo: dopo, avrebbero dovuto abbatterlo. Ma il mugnaio non ci sentiva, si rifiutava di venderlo, perfino davanti a offerte sempre più allettanti. Il re si spazientì e gli disse: «Adesso basta, io sono il re. O mi dai il mulino con le buone o me lo prendo con le cattive». Il mugnaio aveva però una grande fiducia che il re soggiacesse, anche lui come tutti i mortali, alla legge. Sfidandolo, gli rispose: «Faccia pure, ci sarà un giudice a Berlino». In primo grado gli andò male: perse la causa. Ma la vinse in appello. La morale è che quel giudice era indipendente da tutti, anche dal suo sovrano. La vicenda, sebbene contestata da alcuni storici, è ricordata in una targa apposta tutt’ora nei pressi del mulino. Oggi viviamo in un’epoca in cui alcuni principi fondamentali dello Stato occidentale (tutti sono soggetti alla legge) sono messi in discussione. Da noi, addirittura, la classe politica è riluttante ad accettarli. Una parte ha promosso anche una norma, poi dichiarata incostituzionale, che impediva di processare le principali cariche dello Stato finché fossero in servizio. Non solo. Un ruolo importante nel ribadire che anche chi ricopre incarichi pubblici di grande responsabilità non è legibus solutus, l’hanno giocato i reati di criminalità organizzata e contro la pubblica amministrazione, cioè i delitti di corruzione e concussione. L’Italia, è noto, ha forme di criminalità organizzata sconosciute al resto dell’Europa (se non come frutto di importazione), da Cosa Nostra alla ‘ndrangheta, dalla camorra alla Sacra Corona Unita, tutte caratterizzate anche da legami con esponenti politici. Ma spicca perfino, in senso negativo, per devianze della classe dirigente, la ruling class inglese, in misura sproporzionata rispetto agli altri paesi. Lo raccontano i media con martellante continuità: membri della ruling class nostrana colludono con gruppi mafiosi e rubano. In qualunque altra nazione occidentale, di solito rubano i poveri e non i ricchi, anche perché questi ultimi non hanno alcun bisogno di farlo. In Italia talvolta rubano i ricchi più dei poveri, riuscendo quasi sempre a farla franca. Di più. In questa strana classe dirigente esistono tipi come Calisto Tanzi, patron di Parmalat, che, condannato per un aggiotaggio ai danni di 40 mila risparmiatori, è entrato in prigione dichiarando: «Non me l’aspettavo». Insomma, l’Italia è un paese a illegalità diffusa. Secondo calcoli della Corte dei Conti la corruzione costa alle casse dell’erario 60 miliardi di euro all’anno. L’evasione “vale”, in imposte non versate, addirittura il doppio, 120 miliardi di euro, sempre all’anno. Cifre stratosferiche che mutano profondamente la pressione fiscale ufficiale: che, oggi, in rapporto al prodotto interno lordo, è al 43,2%. In realtà, per chi paga regolarmente le tasse è ben superiore: pesa per il 51,2%, secondo stime della Confindustria. Si tratta di montagne di denaro illegale che, se reintrodotto nel circuito legale, sarebbe in grado di soddisfare le esigenze di qualunque manovra finanziaria. Tempo fa un magistrato italiano, in visita a un carcere federale Usa del North Carolina, si è trovato di fronte a molti detenuti, condannati a pene tra i cinque e i quindici anni, metà per fatti di droga e metà per i “crimini dei colletti bianchi”, per lo più evasione fiscale. Il direttore, scorgendo un certo stupore negli occhi dell’ospite, durissimo, ha spiegato: «Hanno mentito al popolo americano». Un nostro presidente del Consiglio ripeteva che era “normale” non pagare le tasse. La differenza tra un paese seriamente capitalista e un paese tardo feudale è tutta qui. gg